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Dalle experience alle mostre senza opere originali: la comunicazione conta

Da diversi anni nuovi approcci all’arte si sono inseriti nel mercato seguendo la scia della mostra-non-mostra, ossia un evento in cui il manufatto originale non è presente ma assume nuove forme.
Le prospettive si invertono: al centro dell’opera ci siamo noi (“è tutto intorno a te” vi ricorda qualcosa?!)

Parlando strettamente delle arti visive, il mood è il classico “avvicinare un pubblico sempre più ampio” e vale la pena fare alcune considerazioni in merito partendo dalle mostre cosiddette immersive o le experience e finendo con quelle memoriali-ibride, per capire che il problema non sono i contenuti.

In principio fu il visore e l’esplorazione in solitaria di una ricostruzione virtuale. Poi ha preso sempre più piede l’idea di un ambiente reale che coinvolgesse a 360 gradi. Quindi dallo spazio al suono, dalla luce alle sedute, tutto fa sentire gli spettatori nel bel mezzo di una scatola dei sogni, allestita in un luogo apposito o inserita in contesti storici magari anche riqualificati per l’occasione. La tecnologia ha fatto si che questi progetti raggiungessero alti livelli con mesi di studio alle spalle, tanto da immaginare delle sezioni ad hoc all’interno dei musei più tradizionali o viceversa da creare musei interamente virtuali.

Le passate critiche verso questi sistemi si legavano in particolare al significato originario e alla modalità più tipica del fare “mostra”. Dal momento che la tendenza ha trovato una sua collocazione ormai, soprattutto in termini economici con milioni di visitatori in ogni parte del mondo e inoltre va di pari passo con la sfera dei social (tutto tanto instagrammabile!), per chi ancora storce il naso sfido a guardare le facce meravigliate dei bambini quando si trovano di fronte alle pareti piene dei colori di VanGogh e non pensare che in fondo sia una buona idea, una buona alternativa messa in campo oltre al museo e alla galleria. Poi può non piacere ma, in parole semplici, si può scegliere.

Un tipo di allestimento non esclude l’esistenza dell’altro, la questione va concentrata sull’esatta comunicazione. Ad esempio è cosa assodata che nelle immersive non vedremo nulla di somigliante ad un’opera fisicamente installata, dunque fortunatamente si è preferito non parlare più di “mostre” ma solo di experience o spettacoli/eventi multisensoriali.

La vera pecca della comunicazione si ha quando ci si imbatte negli allestimenti-memoriali o ibridi riguardanti personalità artistiche. Ricostruzioni di studi o stanze, proiezioni, fotografie, stampe, cimeli con poco o nulla di originale. Che si mostri qualcosa è indubbio (!) ma troppo spesso la divulgazione e l’informazione a riguardo è ingannevole. Di pezzi originali nemmeno l’ombra, si entra pagando un ticket non proprio popolare (altro argomento dolente di cui parlerò più in là) e si esce delusi, magari rileggendo la pubblicità per vedere se si era capito male o se è stato un bluff a tutti gli effetti.

Che non si possa trovare una terminologia adatta e chiara per quest’ultimo tipo di mostra-non-mostra? Si può ma non si vuole. Come accennato all’inizio dell’articolo, il punto non sono i contenuti bensì la scelta che dovremmo essere liberi di poter fare. Ma così come siamo messi nel cuore pulsante dell’esperienza artistica così siamo anche nel punto focale del, volutamente fuorviante, marketing altrui.

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